Elogio del fallimento e perché la cultura cattolica non ci aiuta
Nella storia dell’evoluzione e del progresso, l’uomo ha proceduto per tentativi. Non penserai mica che l’uomo sia riuscito ad accendere un fuoco al primo esperimento, giusto? Chissà quanto tempo è passato da quando ha capito che sfregando due bastoncini si potevano ottenere delle scintille, a quando è riuscito materialmente a dar vita a un bel fuoco scoppiettante!
E noi non siamo diversi da quel nostro progenitore barbuto.
I bambini cadono centinaia di volte prima di imparare a camminare, ad andare in bicicletta, a volteggiare sui pattini e non ne fanno una tragedia.
Poi, lentamente, qualcosa comincia a cambiare.
E il concetto di fallimento si annida nella loro mente, diventando qualcosa da evitare a tutti i costi, qualcosa che li definisce, una sorta di stigma del quale vergognarsi.
Eppure, se allarghiamo i nostri orizzonti, possiamo vedere con chiarezza come questo sia un esclusivo bagaglio della cultura italiana e come altrove, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, il fallimento sia invece visto come un passaggio obbligato e un’opportunità. Ma come mai qui da noi, invece, cresciamo con il terrore di fallire?
Fallire non è una colpa.
Il fallimento è parte integrante di ogni sfida e l’idea di poter raggiungere il successo al primo tentativo rappresenta una pericolosissima chimera, che può paralizzare e cancellare ogni ambizione.
Questo gli americani lo sanno bene.
Nella Silicon Valley, la patria delle start-up, il motto è “fail fast, fail often, learn faster”, fallisci velocemente e spesso e impara velocemente.
Oltreoceano, il fallimento è visto come parte costitutiva di ogni storia di successo, a tal punto che nei colloqui di lavoro, più che i successi nella carriera, gli intervistatori sono interessati alle occasioni perdute, agli errori commessi, agli esiti negativi conseguiti.
Questo perché, paradossalmente, è proprio dagli errori dei candidati che riescono a capire le loro vere potenzialità.
Perché in realtà, se è vero che il curriculum è importante, è altrettanto vero che sono le qualità personali a fare la differenza. E gli anglosassoni apprezzano e tengono in grande considerazione i tentativi fatti, le sfide affrontate e, ovviamente, i fallimenti superati.
Perché è da come ci si rialza e da come si ricomincia a correre che è possibile valutare resilienza, capacità di assorbire colpi, determinazione e coraggio. Tutte qualità fondamentali per un dipendente in grado di lavorare in autonomia, votato al raggiungimento degli obiettivi e capace di non arrendersi alle prime difficoltà.
Il candidato perfetto, insomma.
I fallimenti non ti qualificano come fallito
Una delle ragioni per le quali nel mondo anglosassone il fallimento è vissuto come un’ineluttabile step della crescita personale e professionale, mentre in Italia è vissuto come un’onta da nascondere al mondo, è probabilmente la differente matrice culturale.
E senza disturbare Max Weber e il suo saggio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, basterà fare riferimento ad un più semplice ed immediato aforisma di Goethe, senza dubbio frutto di una cultura protestante:
“Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di fare, incominciala.
L’audacia ha con sé genio, potere e magia.
Incomincia adesso”.
Nella cultura cattolica, invece, le cose vanno diversamente. Il fallimento è legato a concetti quali la colpa, la negligenza, il peccato, che i protestanti risolvono in modo decisamente più rapido, discutendone direttamente con Dio.
Basti pensare all’etimologia della parola fallimento nella lingua italiana: questo termine deriva, infatti, dal latino “fallere”, che non significa sbagliare, ma ingannare. Di conseguenza, nel corso dei secoli, il concetto di fallimento si è indissolubilmente legato a questa accezione negativa, configurando così il fallito come un truffatore, un balordo.
Risultato? Da noi il fallimento è vissuto come una colpa, come qualcosa da nascondere, ma soprattutto come qualcosa che ci definisce come persone.
Fallisci una prova? Sei un perdente. Non superi un esame? Sei un ignorante. La tua azienda chiude? Sei un incapace.
Niente di più sbagliato. Per arrivare al successo è necessario cadere, tante e tante volte. Ed ogni volta se ne esce più forti, più sicuri, più competenti. Il segreto sta nel non vivere il fallimento come una tragedia, nell’acquisire la consapevolezza che il mondo non solo non finisce, ma rimane lì, proprio per darti un’altra opportunità.
È attraverso il fallimento che raggiungiamo il nostro risultato più importante, in definitiva l’unico che abbia davvero senso: diventare esseri umani migliori, consapevoli delle nostre fragilità, resilienti dopo gli insuccessi e, soprattutto, tolleranti con noi stessi.
L’imperativo è diventare i migliori alleati di noi stessi, pazienti ed accoglienti, e non feroci giudici, severi e inflessibili.
E per non dimenticarcelo, abbiamo voluto inserire questa frase nella nostra collezione Boule de Sac: “People lie actions don’t”.
Vogliamo ricordarci, ogni giorno, che ciò che conta è fare, provare e riprovare, non perdendo mai quella fame di cui tanto amava parlare Steve Jobs, quella fame che è l’unico vero volano della crescita personale e, dopo tanti fallimenti, del successo.